Evropa fuggiasca in un lungo viaggio sulle onde che hanno visto il toro divino rapitore di Europa.
La traccia su cui si muove la barca che porta Evropa fuggiasca ha le cadenze dell’Odissea. Ed è un canto questo per Evropa che sarà Europa. Un dono per l’Occidente stremato.
Su lei veglia la Luna, “Selene, la Dea bianca, Fatamorgana, Amica degli aedi; dai seni di bronzo”. L’accoglie Moya, barca inglese dal nome gaelico di donna, che la cullerà per tutto il viaggio, proteggendola da tempeste e banditi. Petros è il nocchiero greco che conduce l’imbarcazione con sicurezza antica. E ci sono un cuoco turco di madre tedesca, Ulvi, e un nostromo francese, Sam. Il narratore viaggia con loro, è dalmata, ma il suo nome non compare. Ma noi sappiamo chi è.
Moya salpa da Gazipaşa con rotta verso Alanya. Tempeste, bonacce, infine rotta verso Oriente.
Per incontrare Evropa fuggiasca siriana, sulla costa di Sidone, destinata a percorrere il Mediterraneo orientale per portare il suo nome rinnovato all’Occidente, che ha smarrito la sua cultura e ha bisogno di una nuova madre.
Tiro, Sidone, Cipro, Akrotiri, Capo Akamas, Adakoi, Marmaris, Rodi. Tempeste, bonacce, isole, coste. Cnido, Kos, Kalimnos, Leros, Lesbo, Chio, Panormos.
Luoghi su cui fermarsi, luoghi intravisti costeggiando isole e porti, monti che si disegnano all’orizzonte.
Chora, Mykonos, Delo, Sounion, Kea, il Pireo, Egina. Fuga da capo Matapan, passaggi tra Cefalonia e Itaca. E via via verso l’occidente. Corfù, Otranto, Eraclea, Siracusa, Scilla e Cariddi, Stromboli.
Un viaggio per luoghi antichi dove ancora abita il mito, ma dove improvvisamente irrompe la contemporaneità: il presente si insinua nelle crepe del passato e ai ruderi dell’antico si sovrappongono le macerie dell’oggi.
Popoli, costruzioni, figure antiche si sovrappongono a strati attorno a questo mare antico che genera miti ed orrori: laddove c’erano divinità e silenzio ora è di scena lo scempio del turismo cialtrone che insudicia tutto, che tutto stravolge:
«Delo… Nel nostro mondo la Storia di un secolo puzzava già di museo e formaldeide. Il mito no, ti riempiva i polmoni col vento dei millenni. Per sentirlo sull’isola-ombelico dell’Egeo c’era però da aspettare la sera.
Di giorno infatti gli dei si eclissavano travolti dagli sbarchi quotidiani dei barbari sfiniti dalle notti di bagordi, condotti dagli stessi barconi che portavano i migranti ma con molto più chiasso. Solamente la bellezza taceva, stralunata.
Nei mosaici le tigri non ruggivano, stavano rintanate tra le pietre e sulla grande strada verso il Sole i leoni ruggenti in marmo bianco non impaurivano più anima viva. Tenevano le fauci spalancate solo per sbadigliare dalla noia.
Non c’era pace per l’isola sacra. Anche Latona era andata lontano per partorire Apollo in solitudine
nel segreto di un’isola deserta che aveva nome Rineia, oltre un braccio di mare dal colore blu cobalto».
Ma l’orrore vero viene dal fondo del mare da cui emerge lo strazio dei migranti. Evropa fuggiasca sa bene cosa nasconde l’incanto del mare:
«… il mare vomitava i suoi avanzi.
C’erano calze, un libro di preghiere, maglie, forchette, bustine di zucchero, un orsetto di pezza. …
La risacca ruttava e sbadigliava su mutandine, zaini, salvagenti, rasoi da barba, pettini, una croce, che disegnavano un arco perfetto tra i ciottoli d’avorio e l’acqua blu.
… navigavamo sui morti insepolti».
Immagini terribili, di forte impatto emotivo, bellissime nella loro tragicità:
«E spesso nella notte
il freddo dei naufragati saliva dall’acqua senza suono. In un sepolcro di alghe, con la Luna, riemergevano con la testa dall’onda per gridare il proprio nome per l’ultima volta.
E crudelmente aprile li chiamava
ancora, con germogli, sole, vento e striature violette sul mare.
Nadir, Gulmina, Aisha. Dagli abissi le ombre riemergevano per dire a chi restava: “Io sono esistito”.
Senza quel nome, essi erano nulla».
Moya vaga da una costa all’altra cercando l’approdo per depositare Evropa fuggiasca, un luogo sicuro. Per lei come per tanti migranti respinti e maltrattati è difficile trovare accoglienza. L’amata Grecia del capitano Petros è solo un Caos consegnato all’indifferenza degli abitanti, così come tutti i luoghi stravolti dall’avanzare di questa nostra attualità senza cultura e senza storia; Atene è il paradigma con cui possiamo coniugare i verbi delle nostre modernissime città:
«La rabbia di banlieues dimenticate colpiva gli stranieri e i mendicanti. Non i corrotti ancora a piede libero. La polizia arrestava i senzatetto e li faceva sparire nel nulla
e mentre mezza Grecia andava a fuoco, negli stadi era guerra sugli spalti con lancio pirotecnico di molotov pattuglie di esaltati con bandiere marciavano per Alessandro Magno, ubriache di ethnos, anziché urlare contro i padroni a causa dell’equivoco
che li spingeva a una guerra tra poveri.
E intanto la fiumana di automobili e camion dal muggito di bestiame strombazzava, attirata a passo d’uomo dal megaingorgo di piazza Sintagma.
Come la Gran Bretagna, ora anche Atene».
Canto per Europa è un poema antico che parla del presente. Il ritmo è l’esametro tradotto in endecasillabi.
La scrittura è densa, affollata di metafore che si susseguono come le onde di questo mare solcato da dei, da eroi e da fuggiaschi a cui l’Occidente nega la salvezza, dimenticando che Evropa fuggiasca è la madre di tutti.
Le immagini sono spesso misteriose, non sempre decifrabili, significano se stesse, pitture arcaiche di miti ormai dimenticati. Per questo hanno tutto il fascino di ciò che si comprende con il cuore, più che con la razionalità.
Il libro non si chiude, non si chiude l’avventura. Il viaggio è infinito e circolare. Per sempre. La fine diventa proemio.